lunedì 19 ottobre 2015

Intervista a un bambino della Prima Guerra Mondiale


“Giulia: ciao nonno, posso farti un’intervista?

Nonno Pietro: un’intervista? Certo, ma su cosa mi vuoi intervistare?

Giulia: vorrei chiederti qualcosa sulla Prima Guerra Mondiale.

Nonno Pietro: ma io ero molto piccolo a quel tempo, invece la Seconda l’ho combattuta tutta in Africa!

Giulia: sì, lo so, nonno. Però io vorrei chiederti com’era “essere bambini” durante la Prima Guerra Mondiale. Penso che sono pochi i bambini di allora che possono raccontare le loro impressioni e così farò davvero un’intervista esclusiva!

Nonno Pietro: va bene, allora fammi pure le domande e cercherò di ricordare…

Giulia: quanti anni avevi quando ti sei reso conto che l’Italia era in guerra?

Nonno Pietro: io sono nato il 29 giugno del 1911, ma sui miei documenti risulta il 1 luglio, perché a quei tempi, nascendo in casa, spesso si ritardava la comunicazione al Comune. Anche se avevo quattro anni quando l’Italia è entrata in guerra, il 24 maggio 1915, non me ne sono accorto subito, perché a Pachino, il paesino in Sicilia dove sono nato, le cose si sapevano sempre dopo. A quel tempo non c’era la radio, né la televisione e poi eravamo una famiglia semplice, non si parlava molto di politica.
Mio padre era un contadino, in casa c’erano già altri tre bambini, le responsabilità erano tante e la situazione economica dell’Italia non era sicura.
All’epoca io ero il terzo di quattro fratelli: zia Giuseppina del 1907, zio Giuseppe del 1909 e poi zio Corrado del 1914. Nel 1916 sarebbe nato anche Concetto, un altro fratello.
In casa con noi viveva anche il nonno, Pietro, che era rimasto vedovo e veniva accudito dalla mia mamma.

Giulia: insomma eravate proprio tanti. La casa era abbastanza grande?

Nonno Pietro: Era una casa modesta, di paese, con una grande cucina dove c’era il forno a legna per fare il pane, che tutti noi bambini aiutavamo a impastare e cuocere, una camera da letto per i genitori e i bambini più piccoli, una camera per gli altri figli e un salottino per accogliere gli ospiti. C’era anche un locale per raccogliere le provviste alimentari per l’inverno ed uno spazio dove viveva l’asino che aiutava mio padre in campagna.
In un altro locale c’erano le botti dove si conservava il vino prodotto nei vigneti, sia per la famiglia, che per la vendita.
Galline e cane vivevano nel cortile comune, dove di giorno giocavamo noi bambini e la sera ci si riuniva tutti per parlare un po’ di come era andata la giornata.

Giulia: che bello, nonno, sembra una vita serena!

Nonno Pietro: lo era, ma era anche tanto faticosa! I genitori iniziavano a lavorare la mattina presto, andando nei campi dove ancora non c’erano tante macchine e si doveva fare tutto con la forza delle proprie braccia. E anche a casa i lavori domestici erano molto più faticosi: si lavava tutto a mano, le cucine erano a legna e occorreva governare il fuoco, le strade non erano asfaltate e la polvere era sempre dappertutto… senza aspirapolveri, come ora!

Giulia: però l’aria era pulita e non c’era il buco nell’ozono!

Nonno Pietro: questo sicuramente! Tutto ciò che si usava era naturale e permetteva di mantenere un giusto equilibrio tra l’uomo e la natura.

Giulia: e i bambini come passavano le loro giornate? Quando si andava a scuola?

Nonno Pietro: Si iniziava la scuola a sei anni, subito con la prima elementare. L’asilo non era molto frequentato, perché i bambini rimanevano in casa con la mamma e l’aiutavano nei lavori domestici, nell’accudire gli animali o nelle attività in campagna.

Giulia: e tu quando ti sei accorto della guerra?

Nonno Pietro: Avevo cinque anni compiuti e l’ho capito una sera quando la mamma ha dato a papà una lettera che era arrivata dal Distretto di Siracusa e che diceva che doveva andare a passare la visita per vedere se idoneo per il fronte. Non lo avevano chiamato all’inizio della guerra perché lui era già in età avanzata ed aveva tre figli, ma le cose al fronte andavano male e cominciavano a richiamare anche le persone non più giovanissime.
Mia madre era tanto preoccupata, perché capiva che si sarebbe trovata con tre bambini piccoli, un quarto in arrivo, ed una persona anziana tutte sulle sue spalle. Lei era rimasta orfana da bambina e non aveva altri parenti ai quali chiedere aiuto, una situazione difficile per una donna sola in un piccolo paese della Sicilia, dove il reddito familiare era legato al lavoro della terra.
I miei genitori parlarono quasi tutta la notte per capire come poter fare, si fecero coraggio e presero alcune decisioni.
Il mio papà trovò vari braccianti di fiducia che avrebbero lavorato la terra sotto la guida della mamma e il giorno dopo parlò molto con mia sorella grande, dicendole che avrebbe dovuto prendersi cura di noi fratelli più piccoli, perché la mamma sarebbe stata impegnata con il governo della terra.
A noi disse che ci avrebbe affidato la sua casa e i suoi animali. Io mi sentii molto importante, anche se non capivo bene cosa avrei dovuto fare, ma andai subito a dare da mangiare al nostro asino, sperando che non mi tirasse qualche calcio. In effetti penso di aver avuto un po’ paura dei suoi zoccoli così grandi in confronto alle mie mani ancora da bambino piccolo.

Giulia: e poi cosa successe?

Nonno Pietro: mio padre andò a Siracusa e fu considerato idoneo. Gli proposero di diventare Ufficiale perché era istruito, ma accettando sarebbe dovuto partire subito per il fronte, mentre, da soldato semplice, poteva rimanere al distretto di Siracusa come impiegato per il disbrigo delle pratiche amministrative. Non so quali siano stati i pensieri di mio padre, ma so che decise di rimanere vicino alla sua famiglia a Siracusa, rinunciando al titolo di Ufficiale. La sorte gli fu amica, perché il Reggimento del quale avrebbe dovuto prendere il comando ebbe una triste sorte.
L'8 giugno 1916 fu organizzato il suo rientro in Italia dall'Albania, via mare. Per il trasporto delle truppe partì un convoglio formato dal piroscafo Principe Umberto e da altre navi di scorta. Sul Principe Umberto avevano preso posto, fra truppe ed equipaggio, quasi tremila uomini.
Le navi salparono in serata, per essere coperte dal buio, ma, poco dopo, la rotta del convoglio s'intrecciò con quella di un sommergibile tedesco, l'U. 5, che lanciò due siluri. Il Principe Umberto, colpito a poppa, s'inabissò nel giro di qualche minuto, trascinando con sé quasi duemila uomini. Solo pochi poterono essere tratti in salvo.
Ricordo ancora il dolore di mio padre per questo evento e le preghiere di mia madre che ringraziava il Signore per lo scampato pericolo.

Giulia: nonno, sembri ancora commosso mentre mi racconti queste cose, ma allora come bambino cosa provavi?

Nonno Pietro: la nostra vita era così faticosa, che la stanchezza e la giovane età non mi facevano sentire tanta paura e poi la mia mamma era sempre molto serena quando ci raccontava le cose e ci coinvolgeva nella vita di tutti i giorni.

Giulia: come erano le tue giornate in quel periodo?

Nonno Pietro: prima di iniziare la scuola ero praticamente sempre insieme a mia sorella Giuseppina, Miniccia come la chiamavamo noi, e l’accompagnavo in tutte le sue faccende.  Andavamo a fare il bucato al mare con la cesta dei panni sul carretto e mio fratello Giuseppe che governava l’asino. La cesta era talmente grande per noi, che dovevamo tenerla in due e, ogni volta, salire e scendere era un’impresa.  Mi ricordo che andavamo anche al mulino a far macinare la farina per fare il pane e mia madre mandava solo noi per cercare di commuovere il Dazio, che, allora, faceva pagare la tassa sul grano macinato: eravamo talmente magri che sperava ci facessero uno sconto sul dovuto.
La mattina, mentre mia sorella era a scuola, stavo con la mamma che andava in campagna per controllare gli uomini al lavoro e allora mi sentivo più grande e facevo il padroncino seguendola tra i filari delle viti per controllare se il terreno era stato zappato o se erano arrivati i parassiti.
Quando, poi, ho iniziato ad andare a scuola avevo solo il pomeriggio libero e, dopo aver fatto i compiti, aiutavo nei lavori in casa e nel controllo dei conti che mia madre e mia sorella facevano: mamma non sapeva leggere ma era bravissima con i numeri.

Giulia: e tuo papà non tornava mai a trovarvi?

Nonno Pietro: lui era a Siracusa, che oggi in macchina si raggiunge in trenta minuti di viaggio da Pachino, ma allora erano più di tre ore con la carrozza e il viaggio costava, quindi non veniva spesso. Quando ci riusciva, però, era una festa, perché ci sembrava sempre un miracolo e la mamma piangeva per un po’. Mio padre era molto severo con noi figli e nelle poche ore che passava con noi ci controllava sempre nei compiti e ci ricordava i nostri doveri. Solo verso mia sorella grande, che allora aveva comunque meno di dieci anni, si rivolgeva quasi con gratitudine, perché sapeva la fatica che le dava la gestione della casa.
Un ricordo particolare è la nascita di mio fratello Concetto nel 1916. Ricordo che mio padre riuscì a venire solo dopo alcuni mesi dalla nascita e tenne stretto a sé il bambino per tanto tempo, mentre mio fratello Corrado, ancora piccolo, piangeva perché era geloso.
Il ricordo più brutto, però, è legato a quando nel paese si veniva a sapere che c’erano state delle vittime tra i paesani.
Non sempre arrivavano le salme dei caduti, ma si andava tutti in Chiesa per pregare insieme ai familiari che spesso erano giovani mogli e bambini, come me, che perdevano il padre.

Giulia: e come hai saputo che la guerra era finita?

Nonno Pietro: non me lo ricordo con precisione, ma ricordo che, a un certo punto, le visite di papà diventarono più frequenti, finché rimase con noi sempre e la mamma non dovette più occuparsi dei lavori di campagna. A scuola ci dissero della fine della guerra spiegandoci che era stata una grande vittoria e che il Paese avrebbe avuto tanti benefici, ma, mentre il maestro ce lo diceva, in classe eravamo solo quattro bambini, tutti gli altri erano a lavorare nei campi per aiutare il bilancio familiare, quindi non facemmo tanti commenti e domande…

Giulia: ma non ci fu una festa per la guerra finita e il ritorno della pace?

Nonno Pietro: non mi sembra, forse eravamo tutti così tanto stanchi e sofferenti, che la voglia di festeggiare non era molta. Purtroppo ricordo che anche gli anni a seguire non furono facili e le notizie politiche cominciarono a diventare sempre più frequenti e a separare le persone rispetto alle scelte da prendere, fino agli anni del Fascismo e del nuovo conflitto mondiale ma… questa è un’altra guerra, quindi una nuova intervista, se vorrai farmela!”

Quest’intervista è stata realizzata nel giugno 2010. Giulia aveva tredici anni e, in occasione dell’esame di Terza Media, ha deciso di raccontare, con l’aiuto di tutta la famiglia, la Prima Guerra Mondiale vista attraverso gli occhi di un bambino speciale, il nonno Pietro, che, all’epoca del conflitto, aveva cinque anni.
Oggi Giulia ha da poco compito diciotto anni e si sta preparando all’Esame di Maturità con un solo piccolo rimpianto: non poter più intervistare il nonno Pietro, per raccontare, attraverso i suoi ricordi, gli anni della Dittatura Fascista e di come cambiò il nostro Paese, della Seconda Guerra Mondiale, che ci mise in ginocchio, della sua lunga prigionia in Africa e poi della rinascita del Dopoguerra e del boom economico che travolse l’Italia nel decennio successivo. Ci sarebbe stato davvero tanto da scrivere, avventure che oggi leggiamo solo nei romanzi, ma che appartengono alla memoria di vita di tanti nonni, sempre più anziani e che non dovremmo mai stancarci di “intervistare”, prima che la loro storia diventi Storia, con la esse maiuscola.

Giulia Rinaldi è mia sorella, vuole diventare biologa ed è disordinata e incosciente, ma anche tanto coraggiosa e altruista.
Pietro Tringali, classe 1911, Maresciallo Maggiore in pensione dell’Esercito Italiano, Cavaliere del Lavoro e inguaribile ottimista, si è spento esattamente un anno fa, il 19 ottobre 2014, all’età di 103 anni, oltre un secolo di vita.
Pietro Tringali era mio nonno.

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